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articolo del 25/02/2006
tratto dal giornale: IL MANIFESTO

LUIGI TENCO
40 anni dopo. Notizie dagli scavi
Tanto rumore intorno alla riapertura dell'inchiesta (e della tomba) del cantante, e poi una conclusione frettolosa («fu suicidio») che non convince affatto. E anzi rafforza i dubbi
ALDO F. COLONNA*
Il sarcofago riemerge dalla tomba intatto. E' una cassa massiccia, dal grande spessore, istoriata in modo barocco e desueto, quasi egizia. Verrà aperta in camera peritale ed offrirà uno spettacolo inusitato: il Piccolo Principe è integro, sembra dormiente, con le mani poggiate nell'incavo dell'inguine, l'enorme fasciatura in garza che cercò di trattenere lo scempio a mo' di turbante, con lo stesso vestito che indossava poche ore prima, già allora un po' démodé, a quattro bottoni, un gessato modesto. Lo stato di conservazione è eccellente e sull'interpretazione dei segni ognuno può sbizzarrirsi come vuole. Il credente griderà al miracolo, l'uomo che insegue il sogno, che il Principe si sia mantenuto incorrotto per questo appuntamento, ostia consacrata per l'introibo ad altare dei. Ma il sacro è assente da questo sanctasanctorum. Passano poche ore e il procuratore della repubblica Mariano Gagliano asserisce che si tratta inequivocabilmente di suicidio: «Il caso è definitivamente chiuso». Strano. Un investigatore parla solitamente solo alla fine di un'inchiesta. Gagliano è uomo attento, prudente. Ha impiegato tre anni dalla presentazione della nostra denuncia per decidersi e, a più riprese, ha imposto giustamente la consegna del silenzio. Ma l'esame autoptico non è ancora finito che abbiamo già l'habemus papam.



Un eccentrico visone

La dottoressa Vincenza Liviero, medico legale della polizia di stato, si presenta al cimitero di Ricaldone intabarrata da un visone cavigliare e durante le operazioni di estumulazione non farà altro che fumare nervosamente. L'acconciatura vaporosa esalta i tratti di una bellezza non ancora sfiorita. Alcuni stigmatizzano l'entrata plateale, altri penseranno tra sé e sé ad una nota di eccentrico colore in una giornata che definire plumbea è eufemistico. E' conosciuta come persona riservata, abbottonata, restia a comparire. Eppure, batterà sul tempo il procuratore, facendo una rapida sortita verso le 16:30 per dire: «Non ci sono elementi che contrastino l'ipotesi del suicidio. Le modalità sono da manuale». Strano modo di esporsi anche perché, contrariamente a quanto abbiamo letto, è Tajana l'incaricato, il «number one», e non l'assistente della signora. E a codesta, al di là di ogni annotazione di costume, andrebbe ricordato che è un pubblico ufficiale ed è tenuta al segreto istruttorio.

L'ipse dixit fa dubitare allora dell'utilità di indagini suppletive il cui deposito è previsto fra 90 giorni. Se è già tutto chiaro si potrebbero risparmiare tempo e denaro. Ma, soprattutto, tutta questa fretta a chi giova? Va reso onore all'incaricato della procura, professor Luca Tajana del dipartimento di medicina legale dell'università di Pavia, assistito da Roberto Omodeo Zorini e dal professor Renzo Celesti, direttore del dipartimento di medicina legale dell'università di Genova, che hanno rilasciato dichiarazioni misurate e adeguate al ruolo.

Si è parlato di compatibilità con l'arma di Tenco; è stato rilevato che il foro d'entrata ha una misura di poco superiore ai 7 mm (il calibro di una Walther PPK 7,65 è esattamente di 7,7 mm); il foro d'uscita è di gran lunga più grande e si presenta in modo insolitamente frastagliato. Ma sappiamo per certo che il proiettile che ha perforato la testa di Tenco non c'è ed è impossibile, in sua assenza, fare prove comparative con la pistola di Luigi. C'est à dire: non sapremo mai se la famigerata Walther Ppk 7,65 quella notte sparò. Ed è un dato, incontrovertibile. Non solo: sappiamo come un fantasma si aggirasse quella notte per le stanze del Savoy, rispondente al nome di Lucien Morisse, che deteneva una pistola dello stesso, identico modello e che avrebbe tempo dopo, con la medesima, tolto il disturbo.

Quindi la presenza inequivocabile di un foro d'ingresso e di uno d'uscita stanno a certificare che Tenco morì per un colpo d'arma da fuoco che gli trapassò il cranio, ma non è provato che fosse la sua pistola a fare filotto né è provato, ancorché probabile, il suicidio. Almeno al momento di andare in stampa. Si dimentica, o si preferisce far dimenticare, che nel `67 erano in vendita almeno cinque pistole con calibro 7,65: la Walther, l'Astra e la Star (entrambe spagnole: l'Astra era la pistola impugnata da Tejero nel tentativo di golpe del `81), la Mauser e, neanche a farlo apposta, la Beretta...

E' stato accertato inoltre che non è stato rilevato, tra l'indice e il pollice della mano destra di Tenco, il «segno di Felc» (la ricerca dei cosiddetti effetti secondari macroscopici come la bruciatura, l'affumicatura e il tatuaggio) facilmente rintracciabile ancora oggi in virtù dello stato di conservazione del corpo. E se non c'è, non c'era. Altamente improbabile che quella mano fosse armata. A questo punto se il test di Gonzales (il guanto di paraffina) darà esito negativo e cioè se saranno assenti dalla mano destra residui di piombo, bario e antimonio, allora sarà davvero impervia la strada dell'ipotesi suicidaria. Ma non basta: la composizione delle polveri varia a seconda della casa costruttrice e se tali residui verranno rilevati dovranno essere riconducibili direttamente alla fabbrica di munizioni Fiocchi, ché questa era la marca di munizioni che Tenco aveva acquistato a Roma insieme alla pistola.

Si è comunque partiti con il piede sbagliato. A Tajana, che è professionista di rango, sono stati affidati strumenti ottocenteschi: lo scalottamento in toto con incisione della cute in circolo ovvero la sezione del cranio continua, con la misurazione del tramite con lo specillo, sono strumenti artigianali. Nessuno ha pensato di avvalersi di una Tac volumetrica ad alta risoluzione, con annesse ricostruzioni e rielaborazioni in 3D. E' stato il sistema per appurare con precisione le modalità della morte di Carlo Giuliani a Genova durante il G8, ma non solo: è stato lo strumento che ha consentito un'accurata ricostruzione degli eventi correlati alla morte dell'uomo di Similaun.

Non ci scandalizza che la verità possa portare alla pista del suicidio. Abbiamo lavorato per la verità quale che fosse, anche a rischio del dileggio di chi ci voleva cacciatori di taglie (leggi scoop). Ma i dubbi, quelli veri, non sono stati fugati. La polizia disse che il corpo di Tenco fu rinvenuto su un pavimento di parquet e, allora, poche storie, Tenco morì in una stanza diversa dalla sua e riportato nella 219 solo successivamente. Mino Durand, giornalista allora in carica al Corriere della Sera, disse a più riprese di aver rinvenuto nella stanza una Beretta. Durand è stato professionista di rara onestà intellettuale, come Sandro Ciotti per intenderci (e scusate se è poco): il quale, insonne, non udì alcuna detonazione.

Non ho mai dubitato della loro parola e allora: giù le mani dal banco. Oggi sappiamo con certezza che quella Beretta era presente sulla scena del delitto e fu fatta sparire. Paolo Dossena, un galantuomo, fu l'unico ad aver visto il profilo sinistro di Tenco che risultò pulito, senza tracce di sangue. Strano che un foro d'uscita non provochi versamenti! Borelli, il medico condotto che certificò la morte, disse che «il colpo fu sparato a brevissima distanza». Il tramite (la distanza dal foro d'entrata a quello d'uscita) ha una direzione obliqua dal basso verso l'alto. E allora, se non ci scandalizziamo dell'eventualità che Tenco possa essersi davvero suicidato, c'è qualcuno che può scandalizzarsi se un'altra persona presente nella stanza in cui Tenco morì (e non la 219 quindi), magari di bassa statura, gli sparò a tradimento e a bruciapelo con la propria pistola o, al limite, con la sua? La letteratura di medicina legale è piena di omicidi camuffati da suicidio. Oggi i dubbi che avevamo allora divengono certezza: dolo e despistaggio furono confusi per imperizia e pressappochismo.

Il cosiddetto biglietto d'addio recitava, fra l'altro: «spero che serva a chiarire le idee a qualcuno». La nebbia invece sembra non diradarsi, se ravvisiamo nella notizia data in modo intempestivo una voglia di chiudere subito, una volta per tutte, perché il proiettile che abbiamo cercato noi per anni, senza fortuna (e non si capisce perché debba essere ritrovato proprio adesso...) non si trova. Ed ecco, improvvisa, una rivelazione di quelle che dovrebbero far vergognare chi conosce ancora vergogna.

Reperti venduti e regalati

Apprendiamo solo ora che nel lontano `68, a un anno di distanza dalla morte di Luigi, il tribunale di Sanremo vendette i reperti della scena criminis. E' tale Renzo Del Monte ad acquistare all'asta per mille lire di allora l'intera scatola di cui, asserisce, conoscerà il contenuto solo rientrato a casa. Falso anche questo. In sede d'asta la consistenza dei lotti viene dichiarata e Del Monte, con regolare porto d'armi, fu attratto più che altro dalle munizioni. Va precisato che, allora, un privato con regolare autorizzazione poteva acquistare munizioni in numero inferiore alle 20 unità senza necessità di denunciarle alla polizia. La «golden box» contiene infatti: il caricatore originale della Walther Ppk 7,65 completa di 6 proiettili e con molla d'armamento (la pistola riconsegnata alla famiglia sarà corredata invece del caricatore di riserva, vuoto), una scatola con 12 cartucce Fiocchi, il tiro a bersaglio, il libretto d'istruzioni, la scatola di tranquillanti di cui Tenco faceva uso, la denuncia autografa fatta ai carabinieri di Recco di detenzione dell'arma acquistata a Roma in via Bissolati e, udite, un bossolo esploso...

Del Monte, che appare come il classico frequentatore di aste, non mostra interesse per gli oggetti. In verità mostra - al pari della polizia - scarsa sensibilità; quegli oggetti, una volta chiusa l'inchiesta-farsa del commissario Molinari-Clouseau, appartengono di diritto alla famiglia, e passi per le munizioni, ma la scatoletta di farmaci e lo scritto autografo appartenevano al dolore in cui piombarono il fratello e la madre. Morale a parte, Del Monte regalerà letteralmente gli oggetti a un tale Lino Ligato, aficionado del Club Tenco da poco costituito, gestore del night «Il Pipistrello» dove finivano la serata i primi tempi gli artisti della manifestazione. Enrico De Angelis, anima del club, lo ricorda bene ma ne ha perso le tracce da una trentina d'anni. In verità sembra che viva sempre a Sanremo, dove fu avvistato un anno fa in un bar, pare in condizioni psichiche instabili; più recentemente qualcuno lo ha incrociato nelle vesti di un clochard senza fissa dimora.

Noi aspettiamo di leggere i resoconti dell'indagine autoptica-peritale con impazienza. Solo allora metteremo la parola fine (sperando per i periti che la pallottola vagante faccia ritorno nel frattempo nel fantomatico cassetto che l'ospitava) o seguiremo altre strade. Sperando che non ci ammanniscano verità da allevamento, che non ci parlino ancora di crocifissi laici.

(* Aldo F. Colonna è uno dei giornalisti che hanno provocato la riapertura dell'inchiesta sulla morte di Luigi Tenco)

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