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INTERVISTA A GIANFRANCO REVERBERI

 tratta dal "LIBRO-CD di Ada Montellanico QUASI SERA. UNA STORIA di TENCO

intervista a Gianfranco Reverberi

Gianfranco Reverberi è uno degli artisti più rappresentativi della storia della musica italiana passata ed attuale. Grande musicista e compositore, ci ha lasciato brani senza tempo che sono nel cuore di tutti, contribuendo a dare una svolta decisiva alla ricerca mu­sicale negli anni '60. Ho avuto il piacere e l'onore di conoscerlo dopo l'uscita del Cd Danza di una ninfa e ho trovato un uomo e un artista straordinario che tuttora man­tiene una coerenza nel comporre e fare musica senza nessun compromesso commerciale ma solo per una pura ricerca di emozione e di bellezza.

Ada Montellanico: Cosa puoi raccontarci della scena musicale degli anni Sessanta?

Gianfranco Reverberi: Credo che per quanto riguarda la musica, quel perio­do sia stato il più divertente. Forse, la vedo così perché negli anni Sessanta avevo vent'anni, e quando hai vent'anni tutto è divertente. La guerra era fi­nita e quindi c'era una grande voglia di fare, di costruire e di divertirsi. Que­sto accadeva negli anni Cinquanta, ma continuò anche nel decennio suc­cessivo. La musica cominciava a cambiare completamente. Tra il '54 e il '55 io facevo il militare e ricordo quando arrivarono il primo disco di Elvis Presley e il primo disco di Harry Belafonte Banana boat. Il jukebox affondò la Rai di quei tempi: allora alla radio c'erano cose inte­ressanti, ma anche canzoni squallide e banali... non mi piacevano. Tutto cambiò con l'arrivo del jukebox: è successa la rivoluzione. Tutti hanno co­minciato a fare dischi, cosa che prima era praticamente impossibile. Mi ricordo che prima i cantanti per entrare in Rai dovevano fare decine di provini. La voce non doveva avere il vibrato. Nessuno riusciva ad entrare in Rai, ottenere un contratto anche di tre mesi con un'orchestra minore era già un punto d'arrivo. Quando è arrivato il jukebox, siamo arrivati anche noi... noi tutti perché tutti facevamo musica. In realtà, eravamo già lontani dalla Rai di quei giorni, da quel tipo di musica, perché facevamo jazz, ci dedicavamo ad al­tre cose.

A.M.: Quindi hai cominciato suonando jazz?

G.R.: Sì, poi è arrivato il rock and roll, e noi, jazz o non jazz, avevamo l'età giusta per farlo nostro. I genitori, come si sa, criticano sempre, e non potevano accettare il rock and roll. C'erano quelli che criticavano i capelloni e quelli che criticavano il rock and roll, ma in quella musica c'erano delle cose notevoli. In quel periodo, c'era stato un "filmetto" che aveva fatto il "botto", era intitolato Gangster cerca moglie. C'erano i Platters e tutti i più grandi dell'epoca e c'erano dei brani come Cry Me a River. La cantava benissimo Julie London con Barney Kessel e un grande contrabbassista. Era jazz anche se commerciale, ma comunque divertente e completamente diverso dalla musica che eravamo abituati a sentire prima. Quindi c'è stata la rivoluzione. La radio non la sentiva più nessuno e tutti volevano fare dischi. C'era il boom del disco, perché ormai c'era il jukebox. Il disco si comprava dappertutto, anche sulle spiagge. C'erano le valigette con i giradischi portatili, i 45 giri. Tutti facevano dischi, anche delle persone impensabili. Ad esempio, in Piazza Beccaria a Milano, c'era un parcheggio e un bar all'uscita della galleria sulla destra. In questo bar c'erano tutti i "papponi" e la sala da biliardo. Uno di questi sta-va sempre lì, giocava a carte, a biliardo, controllava le sue protette, però si annoiava. Un giorno ha detto: "Voglio fare un disco". L'ha fatto sul serio e ha venduto 25.000 copie... tutti vendevano!

A.M: Si entrava in sala e si incideva un disco?

G.R.: Beh, bastava un quartetto, un quintetto o un trio, tanto era musica che si faceva in diretta. Bisognava per forza incidere in diretta perché c'era solo un registratore, era mono e quello che registravi era quello che rimaneva.

A.M.: Quindi era normale fare dischi?

G.R.: Sì, tutti facevano dischi, anche perché in quel periodo a Milano c'e­ra un gran movimento musicale. In ogni palazzo c'era una cantina adibita a sala musica, naturalmente tappezzata di manifesti e frasacce, tipo il "Santa Tecla". Ci vedevamo e tutte le sere si andava in qualche cantina a fare mu­sica, prima jazz, poi anche altra musica...

A.M.: Tu parli di Milano, perché era all'avanguardia?

G.R.: No, era diverso. Noi facevamo il rock and roll a Milano. Poi quando siamo venuti a Roma abbiamo dovuto cambiare tutti i nostri pezzi e farli di­ventare cha cha cha. C'era un altro modo di ascoltare la musica in genera­le. Un successo era un successo in tutto il mondo, ma a Roma la tendenza era diversa, mentre a Milano si suonava di più rock and roll e jazz.

A.M.: Milano era più esterofila?

G.R.: Penso che sia così in tutte le cose. Il gusto del pubblico a Roma era leggermente diverso. Lo dicevamo prima, se fai un successo a Parigi, per tutta la Francia è un successo, se fai successo a Roma, a Frascati non sai se sarà un successo...

A.M.: Questo accadeva a Milano, ma il tuo punto partenza è stato Genova?

G.R.: lo sono arrivato a Milano per fare il militare, quindi mi sono trovato lì proprio nel momento in cui è "scoppiata" quella musica. Mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto. Ero in divisa e me la toglievo per fare le se­rate, poi in macchina la dovevo indossare di nuovo per tornare in caserma.

A.M.: Qual era il tuo strumento?

G.R.: 11 vibrafono. A Milano in quel periodo suonavo in trio con Giorgio Gaber alla chitarra e Giorgio Buratti al contrabbasso, facevamo jazz. Bu­ratti aveva una cavata stupenda, da solo faceva il bassista, il batterista, il percussionista, faceva tutto, era bravissimo, purtroppo non l'ho più visto. Giorgino suonava la chitarra... e poi ogni tanto si formavano altri gruppi con Bruno De Filippi, alla chitarra anche lui e all'armonica a bocca. Tutti i giovani che erano a Milano suonavano jazz, ma non facevano ancora i professionisti, o cominciavano appena a farlo sul serio. Enzo Jannacci: bravissimo pianista... proprio bravo... Poi avevamo formato anche un gruppo rock and roll, dove c'erano Gaber, Jannacci, Paolino Tomelleri, Nando De Luca, Luigi Tenco, io...

A.M.: Erano i Cavalieri?

G.R.: Sì, i Cavalieri, esatto. Qualcuno pensava che fossi il caporchestra, perché ero il più vecchio, ma non era assolutamente vero. C'è una foto esposta in galleria del Corso a Milano dove ci siamo tutti: Mina, Celentano e tanti altri e il mio nome è Maestro Cavalieri.

A.M.: Che periodo era?

G.R.: Fine anni Cinquanta, ma solo più tardi mi sono stabilito a Milano. Prima ho finito il militare, poi mi sono imbarcato, perché volevo vedere l'America. Sono stato fuori quattro mesi. Due mesi in America, due mesi nella cro­ciera dei miliardari, non da miliardario, ma da musicista. Suonavo sempre il vibrafono. C'erano tre orchestre: l'orchestra italiana che doveva fare un po' di spet­tacolo perché allora erano famosi Carosone e gli altri. Poi c'era l'orche­stra greca, perché la nave era greca e per motivi sindacali si doveva assu­mere un'orchestra greca, e l'orchestra americana. Indovina dove ho portato il vibrafono? A.M.: ...Nell'orchestra americana! G.R.: Esatto! Gli italiani non mi hanno più visto, per tutto il periodo ho suo­nato solo con gli americani, ero stato praticamente adottato. Era divertente. Il jazz per loro è come per noi la tarantella, così anche i musicisti meno bravi avevano qualcosa in più rispetto a noi italiani. Il jazz è la loro musica.

A.M.: Per quanto tempo sei stato in crociera?

G.R.: Per quattro mesi, poi sono tornato a Genova. Mio padre mi disse che era venuto il tempo di mettermi a lavorare. Ho lavorato per tre mesi e gli ho dimostrato che potevo farlo con successo, ma volevo essere io a decide­re del mio futuro.

A.M.: Che lavoro facevi?

G.R.: Facevo il rappresentante. Ma confesso che il primo mese ho gua­dagnato tantissimi soldi, il secondo mese un po' di meno, il terzo quasi niente. Allora ho deciso di ricominciare a suonare. Per fortuna mio pa­dre era molto comprensivo. Un giorno gli ho detto: "Preferisco vivere sotto i ponti con la musica piuttosto che miliardario come imprenditore edile". Lui mi ha risposto che la vita era la mia e che potevo fare quello che volevo.

A.M.: Perché a quei tempi fare il musicista, com'era?

G.R.: Come adesso. Prima che ci fosse quella rivoluzione musicale era difficilissimo fare il musicista, perché esisteva solo la radio, neanche la televi­sione. Entrare in radio era una cosa praticamente impossibile, solo uno su un milione poteva vincere un concorso ed entrare in Rai. Non era un mo­mento favorevole. Lo è diventato con l'esplosione della musica americana grazie al jukebox. Abbiamo importato anche la musica francese e tutti i cantautori francesi. Si viveva di musica, c'era musica da tutte le parti. Da venti, trent'anni a questa parte, con la disco-music progressivamente la musica è andata da un'altra parte. I ragazzini non la seguono più, guardano il computer, si preoccupano di fare i soldi, e non di fare delle cose che pos­sono dare dei valori, delle soddisfazioni. Io se dovessi ripercorrere quello che ho fatto, non cambierei neanche le co­se sbagliate, quelle che mi sono andate male, le delusioni. Rifarei tutto. La mia vita m'è piaciuta tutta cosi com'è, ma ad un altro, non la consiglierei, perché adesso è faticoso fare musica e portarla avanti. Ci vuole passio­ne, determinazione, solo in questo modo riesci a venirne fuori. Ho l'impressione che sia diminuita la gente che lo fa con passione, solita­mente sono quelli che suonano jazz o musica classica. Loro sicuramente lo fanno con amore, mentre tra quelli che fanno dischi di musica leggera, so­lo l'uno per mille lo fa per passione, gli altri per mestiere. Di partenza l'obiettivo è quello di voler fare il cantante, perché si guadagna di più e si lavora di meno, quindi nessuno si preoccupa più di avere talen­to. Chi invece ha talento, non fa questo tipo di ragionamento e magari ri­nuncia anche a dei guadagni pur di fare bene questo lavoro, ma sono pochi. Non si riesce più a sapere chi ha il talento. A volte qualcuno ce l'ha, ma non ha l'opportunità di poterlo dimostrare. Rimangono relegati e alla fine fanno altro.

A.M.: Ora mi sembra che non ci sia una ricerca sull'originalità, capita spesso di sentire voci simili ad altre, una sorta di clonazione diffusa, mentre prima non era così...

G.R.: Prima ogni artista voleva affermarsi grazie alla sua personalità, di­mostrare il proprio pensiero, il proprio modo di vivere la musica e di espri­merla. A qualcuno andava bene, a qualcuno andava male, ma almeno c'e­ra la voglia di fare qualcosa di originale, di personale. Ma anche questo è venuto dopo, prima, nel periodo pre-rivoluzione, era tutto abbastanza ap­piattito. Solo alcuni avevano una personalità come Natalino Otto, che era uno dei più bravi e faceva swing. Questa cosa veniva da Genova, perché sia Natalino Otto, sia Francesco Ferrari, sia Pippo Barsizza erano tutti liguri e subito dopo la guerra sono sta­ti i primi a suonare lo swing. Il motivo me lo ha spiegato Natalino. Mi rac­contò che in tempo di guerra era proibito ascoltare la musica americana e parlare inglese. Mi ricordo infatti che io avevo un disco Saint Louis Blues, che sull'etichetta era stato tradotto "San Luigi azzurro"! Era proibito, appunto, ma loro volevano sentire la musica americana. A Genova per via del mare e delle navi, c'era sempre qualche marinaio, ami­co di questi musicisti, che di contrabbando riusciva ad importare dei dischi d'oltreoceano. Si riunivano ad ascoltare la musica dentro queste cantine tutte tappezzate, perché non sentisse nessuno. Poteva esserci, casomai al terzo piano, un fa­scista e, se se ne fosse accorto, sarebbero stati guai seri. Si mettevano intor­no al giradischi, con il 78 giri e imparavano a memoria queste canzoni americane. Erano le persone vissute subito dopo la guerra ad essere più vi­cine a quel tipo di musica. C'erano cantanti bravissimi, ma erano pochi e fra loro c'era sempre una gran concorrenza. Mi ricordo che al primo Festival, trasmesso anche in eurovisio­ne, suonava l'orchestra di Nello Segurini, e tutti i cantanti più famosi erano venuti a Genova per cantare con lui. Eravamo partiti senza fare prove ed è successo di tutto. Ognuno aveva modificato le partiture a modo suo e quindi c'era quello che tornava a capo e quello che andava avanti, un caos!

A.M.: Ma era il festival di Sanremo?

G.R.: No, il Festival al Lido di Genova, un festival di canzone italiana. C'erano tutti i più grandi interpreti. Claudio Villa che allora cantava con il falsetto e non da "tenorino", Oscar Carboni che cantava allo stesso modo e Luciano Tajoli. Beh, dietro le quinte, facevano a cazzotti loro tre. Ognuno rivendicava la paternità o il successo di qualche brano. Non era un bel­l'ambiente e c'era una rivalità incredibile.

A.M.: Raccontaci il tuo primo incontro con Luigi Tenco.

G.R.: Abitavamo tutti lì. Lui aveva il negozio in via di Rimassa, io vivevo in Corso Torino, che è il proseguimento di una strada divisa solo da una traversa, Via Cecchi, dove c'era il punto di raduno e il cinema Aurora, l'u­nico cinema di Genova che dava tutti i musical. Noi ci incontravamo da ragazzini senza divisioni tra chi faceva musica e chi no. Ci trovavamo in piazzetta, andavamo a vedere questi film. Entravamo con Lauzi, che era bravissimo a parlare inglese (a scuola era il primo della classe). Entravamo al cinema alle due del pomeriggio e uscivamo a mezzanotte. Poi restavamo fino alle 4 del mattino sulla panchina a ricantare tutto il musical. Bruno si ricordava le parole a memoria, noi ricordavamo la musica e rifa­cevamo il musical sulla panchina. Questo succedeva molto spesso.

A.M.: Chi eravate?

G.R.: Lauzi, Ruggero Coppola, quei cinque o sei più appassionati di musica.

A.M.: Tenco c'era?

G.R.: Sì, come no! Lui abitava in Via Nizza mi pare, avevano il negozio di grossista di vini in via Rimassa, e lui era sempre lì con il fratello, con la ma­dre, stava lì e poi ci si trovava al bar Igea o ad un altro bar, c'era il bar de­gli sportivi, dei papponi...

A.M.: Bella questa cosa che stavate fino alle quattro del mattino a ri­cantare tutti i brani... Eravate tutti amanti della musica, avevate lo stes­so talento?

G.R.: Amanti della musica sicuramente, lo stesso talento anche, perché il tempo lo ha dimostrato. Ruggero Coppola ha suonato la batteria con noi, poi però è diventato un grande delle assicurazioni. C'era anche un altro amico, Bruno Martinoli, ingegnere elettronico eccezionale, che suonava la tromba. Quando andavamo in giro a suonare, a noi serviva molto Bruno, era uno dei più bravi, ma lui non voleva venire perché doveva studiare. Da­to che dovevamo pregarlo ogni volta, Ruggero decise di farsi pregare anche lui. Andò un giorno da mio fratello Gianpiero e gli disse che aveva deciso di vendere la batteria. Mio fratello rispose: "Sì, sì fai bene!". E allora Rug­gero è andato da Luigi chiedendogli la stessa cosa e Luigi ha risposto allo stesso modo. Lo stesso feci io e alla fine l'ha venduta per davvero. Ha capi­to che non era il suo mestiere. Bruno invece era un musicista molto moderno, e un ingegnere elettronico formidabile. Ancora adesso ad ottant'anni, gira per conferenze e convegni. A quei tempi avtebbe suonato bene anche la chitarra, ma la chitarra aveva il manico troppo grande e a lui dava fastidio. Allora si è costruito una chi­tarra a quattro corde, come un ukulele e l'ha chiamata "chitalele", poi da­to che era di legno scadente, compensato brutto a vedersi, l'ha dipinta di bianco, ha messo un pick up e l'ha rinominata "Chitalelatrinaelettrica". Chitalele, lo abbiamo detto, latrina perché era bianca come un cesso ed elettrica perché c'era il pick up, quindi... Fra l'altro lui la suonava benissimo e ci risolveva tutti i problemi, perché suonava così tanti strumenti, la tromba, la chitarra e allora per Bruno po­tevamo anche fare preghiere ma per Ruggero, no... mi dispiace per lui.

A.M.: Quindi è nato questo gruppo?

G.R.: Sì, ma era un gruppo che suonava prevalentemente a casa mia. Non avevamo molte serate, ci trovavamo tutti a casa mia, al settimo piano senza ascensore...

A.M.: Mi hai detto che gli amici li riconoscevi subito perché ovviamen­te erano quelli che ti accompagnavano a casa aiutandoti a trasportare il vibrafono per sette piani...

G.R.: Sì, proprio cosi. Mi ricordo che a volte alle 4 del mattino facevano la gara a chi prendeva la nota più alta. Bruno Martinoli alla tromba e il clari­nettista. .. I vicini si erano ormai abituati. A casa mia si faceva musica con­tinuamente, poi abbiamo cominciato ad andare in giro a suonare.

A.M.: E Tenco suonava il sax alto...

G.R.: Suonava prima il clarinetto, poi ha comprato il sax e comunque mette­va le mani anche sul pianoforte. Suonava con gli "stampini"... accordi a quat­tro voci alla tastiera con le dita di entrambe le mani messe in modo da forma­re delle corna. Abbiamo cominciato a giocare cosi, anche se io e mio fratello studiavamo seriamente, mio fratello al conservatorio, io da una insegnante privata. Studiavo pianoforte, ma suonavo il vibrafono e non avevo un maestro di strumento. Comunque ho studiato pianoforte senza essere un pianista.

A.M.: Voi due eravate gli unici a pensarla in un altro modo.

G.R.: Si, eravamo gli unici a pensare di fare i musicisti.

A.M.: Eravate anche gli unici che studiavano musica. Non credo che Tenco abbia preso lezioni, a parte un po' per il piano da piccolo...

G.R.: No, la voglia di suonare era grande, ma poi ognuno pensava forse di fare un altro lavoro. Io ero stato a Milano nel periodo del militare, ed ero quindi già introdotto nell'ambiente. Terminato il servizio di leva ci sono ri­tornato e mi sono impiegato alla Ricordi Edizioni prima e poi alla Ricordi Dischi. E li piano piano ho portato gli altri.

A.M.: Come sei entrato alla Ricordi?

G.R.: Prima ero un semplice impiegato e devo ringraziare Giulio Rapetti, Mogol, perché ha parlato con il padre, Mariano, editore della Ricordi, e gli ha chiesto un lavoro per me. Io ero già in grado di comporre e arrangiare, però, senza un lavoro, non avrei potuto sopravvivere a Milano. Invece Giu­lio mi ha trovato un posto con uno stipendio e quindi facevo di tutto... fa­cevo sentire i pezzi ai cantanti. In quel periodo i cantanti andavano nelle Case editrici e gli autori facevano sentire il materiale. Loro si prendevano il pezzo, se lo portavano a casa e lo registravano...

A.M.: Lo sceglievano i cantanti?

G.R.: Sì, non esisteva la figura del produttore, c'erano il discografico e il direttore artistico che a volte dava consigli, ma era il cantante che sceglie­va i suoi brani. A volte se c'era un cantante particolare, gli autori scriveva­no appositamente per lui. Poi mi hanno chiamato al reparto dischi e allora iniziai a lavorare come ar­rangiatore, tecnico, fonico, convocatore d'orchestre, eravamo pionieri...

A.M.: Nanni Ricordi ti ha affidato tutto?

G.R.: Nanni era il direttore generale, poi c'era il vicedirettore, Franco Crepax, ed io lavoravo con lui. Nanni stava in ufficio e aveva compiti dirigenziali, mentre io e Franco facevamo gran parte del lavoro, lo pro­ponevo dei cantanti, lui molto spesso si entusiasmava, mentre a volte non gliene fregava niente, giocavamo... secondo me i successi venivano perché giocavamo. Se c'è lo spirito anche la patacca nera che è il disco può avere un'anima. A.M.: Per cui c'era voglia di fare musica. Questa era la cosa più impor­tante. Come hai lasciato Tenco e come lo hai ritrovato a Milano? G.R. Intanto io non ho mai lasciato Genova, ogni venerdì ritornavo per il weekend. Luigi mi veniva a trovare a Milano già da prima, quando facevo il militare. Facevamo serate con un complesso. C'era anche Celentano che cantava, e Gaber, Jannacci, Tenco, Tomelleri. Una volta, mentre ero militare, Celentano doveva andare in Germania. Io non potevo partire per via del passaporto. Mi hanno raccontato poi al ri­torno, che quando sono arrivati, l'impresario gli disse di fare marcia indie­tro, perché non avevano ancora preparato l'accoglienza. Sono tornati in­dietro e intanto l'organizzatore aveva chiamato una cinquantina di ragazzine, fans scalmanate, per pubblicizzare l'evento. Quando c'è stata la serata, Luigi, che cantava come Little Richard e suonava il sax, ha iniziato ad esibirsi e la gente credeva che lui fosse Celentano. Aveva una carica... quando era il momento di tirarla fuori... il confronto con Adriano devo di­re che non era facile, eppure Luigi ce la faceva.

A.M.: Tutt'altra persona e immagine da quella che è rimasta...

G.R.: L'immagine che è rimasta purtroppo è stata l'ultima. Quando si pre­sentava era taciturno, ma era un po' la posa di moda, alla James Dean che andava in quegli anni. Ma lui era così al di fuori dalla cerchia degli amici, dove invece si lasciava andare senza problemi. Era sempre con la testa bas­sa, silenzioso, ma in certi momenti si scatenava. A volte, con discografici o giornalisti, partendo da una parola, si divertiva a fare un certo tipo di gio­co. Se si trovava per esempio con un professore di biologia, (lui ovviamen­te non ne sapeva niente della materia) prima lo stuzzicava, gli chiedeva, poi cominciava a contraddirlo senza sapere nulla. Era così sicuro e tran­quillo che quello cercava sempre più di difendere la sua tesi, fino a che Luiigi cominciava a prendere le posizioni dell'altro e si ribaltava la cosa. Noi tutti stavamo li a guardare cosa sarebbe successo ogni volta. Creava dei ca­sini paurosi con molta intelligenza. A.M.: Lo puoi considerare un amico, Luigi?

G.R.: Amico? Troppo limitativa la parola amico per Luigi. Era forse il più sincero tra quelli che ho conosciuto e poi amico-amico, di quelli che se stai vent'anni senza sentirti, sono sempre vicini e disponibili in qualunque mo­mento e per qualsiasi cosa. Umanamente era esagerato...

A.M.: Se volessimo fare una divisione, tra Tenco compositore e musici­sta, Tenco poeta, Tenco cantante, qual è la parte più interessante per te?

G.R.: II musicista. A livello di cantante lo posso paragonare al musicista perché è la stessa cosa. Come testi ha fatto delle cose geniali che in quel periodo si facevano, si cercava quel modo di scrivere. Ha fatto delle cose belle lui come Giorgio Calabrese, come Gino Paoli, come Bruno Lauzi. Ognuno col suo tipo di personalità. Era un po' il modo di scrivere di quel periodo. Luigi scriveva come parlava. Piero Ciampi era un'altro che scrive­va come parlava. Diceva poesie, cose imprevedibili come niente fosse men­tre ci parlavi normalmente. Erano tutti ispirati a cercare un linguaggio di­verso da quello precedente. Luigi ha scritto delle cose bellissime ed erano tutte cose che sentiva. Quello che scriveva lo viveva, e le cose più belle erano quelle che aveva vissuto ve­ramente, a partire da Angela., perché lui era proprio così... e mi diceva "devo arrivare a vederla piangere, perché allora vuol dire che mi ama veramente". A.M.: Ma lui si innamorava veramente?

G.R.: Sì innamorava pazzamente, magari solo per 15 giorni, ma in quei giorni non c'era amore più grande del suo. Per questo dava molta soddisfa­zione alle donne, perché nel periodo in cui stava con una donna dava il massimo e avrebbe fatto qualunque cosa per lei. Era un cavaliere. Le donne ci credevano e molto spesso ci credevano anche quando lui non ci credeva più...

A.M.: Ti è mai capitato di stare con lui mentre cantava e tra il pubblio c'era una donna con cui lui aveva una storia?

G.R.: Luigi diventava un'altra persona, un incrocio tra Sinatra e Pat Boone, cambiava atteggiamento, voce, modo di cantare. Tutto bellissimo, ma orientato a sedurre la donna, il resto non contava.

A.M.: È difficile parlare e spiegare cosa accade quando si compone, ma tanto più difficile se a comporre si è in due, come il tuo caso con Tenco. Penso a brani quali Il tempo passò o Ti ricorderai, come avveniva composizione a due? Lui ti dava il testo e poi tu scrivevi la musica o lavoravate insieme?

G.R.: Ogni volta era diverso, non ci sono delle regole. Per esempio in Ti • corderai, lui aveva trovato la prima frase, poi io mi sono messo al piano, alla fine discutendo ci siamo ritrovati al piano tutti e due. Su questo brai la prima frase era sua e poi l'abbiamo sviluppato insieme, il testo non c'ei l'ha scritto dopo la musica.

A.M.: Per Il tempo passò, invece?

G.R.: Non mi ricordo bene, forse è partito dal capoverso. Luigi me lo ha dato e poi io ho sviluppato la musica.

A.M.: Ho sempre pensato che lui scrivesse prima il testo e poi in un secondo momento la musica. Era così?

G.R.: Qualche volta sì, qualche volta partiva dal testo, ma molto spesso dall'idea di quello che voleva dire e dalla prima frase. Allora si faceva musica sulla prima frase e da lì si sviluppava il brano. 11 nucleo iniziale quello, l'idea di base e da lì si andava avanti.

A.M.: Alcuni brani di Tenco e anche tuoi hanno all'interno delle modulazioni come se fossero parte integrante della composizione. Per esempio, in Il tempo passò ci sono tre strofe, la linea armonica e melodica è la stessa, ma in ogni strofa si cambia tonalità. È una idea molto bella e crea un grande movimento all'interno della canzone. Oggi per esempio questo non avviene più nella musica leggera, non so perché...

G.R.: Probabilmente nel caso de II tempo passò, lui mi ha dato il capoverso e io ci ho costruito sopra. La modulazione è più un fatto musicale, chi fa il testo scrive una cosa e fatta la prima frase, sapendo che c'è la modulazione cambia al limite solo le prime due parole e si trova quindi una coerenza di discorso musicale e poetico. Come un brano che io avevo composto con Giorgio Calabrese intitolato Ti amo. Giorgio mi aveva dato il testo, sem­brava tutto sconclusionato, ma in realtà era perfetto. Ogni blocchetto era perfettamente in metrica con i precedenti, però erano tanti blocchetti ed io ho composto la musica del primo e tutto il resto andava avanti natural­mente cambiando tono. Composta la musica del primo, non dovevi tocca­re più niente, il brano era fatto.

A.M.: Come era Tenco nella composizione? Si accontentava della risolu­zione trovata o finché non era come diceva lui, andava avanti a cercare?

G.R.: No, lui non si accontentava mai. Anche per questo io sono un po' arrabbiato, perché a volte escono troppe cose errate e inutili, e io finché posso, cercherò di salvaguardare la verità. Dopo quello che è successo a Sanremo, i giornalisti in particolare sono andati a cercare tutto quello che c'era, tutto quello che era stato fatto. È chiaro che a vent'anni uno può scrivere anche delle stupidaggini, e non pensa: "Adesso questa la distruggo, perché se muoio, uno arriva e me la tira fuori e me la pubblica". Io sono un po' dispiaciuto che facciano sentire molto spesso delle cose, o dei provini inediti che se non sono mai usciti è perché erano brutti! E quindi: perché tirarli fuori? Perché vuoi far vedere e far conoscere a dei ragazzini che non sanno neanche chi è Luigi Tenco delle cose brutte? Così possono dire: "ma chi era questo? Ce ne parlano tanto e ha fatto queste porcherie!". Ma no, fa' sentire i pezzi belli! Soprattutto perché lui faceva le cose pensando poi che le versioni scartate sarebbero state distrutte e inve­ce purtroppo sono andati a recuperarle tutte. Quando lui faceva musica era un perfezionista, doveva essere tutto proprio come l'aveva in mente lui, nelle rifiniture, nelle sonorità, altrimenti non gli andava bene. Adesso in­vece stanno tirando fuori tutto.

A.M.: Giusto, nel momento in cui uno canta male e può capitare, di artistico c'è poco... quindi che senso ha?

G.R.: Infatti, anche certi pezzi che aveva fatto e poi si è reso conto e non andavano bene, non li ha pubblicati e li ha messi da una parte, e invece sono stati ripescati.

A.M.: Ma il rapporto di Tenco con i musicisti com'era? Per te aveva carisma? Ci sono molti bravi cantanti ma sul palco si vede se uno ha carisma o no, lui com'era?

G.R.: Infatti... ma lui doveva trovarsi in un ambiente già riscaldato, non sarebbe mai partito a freddo. Infatti a Sanremo che doveva partire a freddo si è fatto le sue bottiglie di whisky, e si è presentato come lo abbiamo visto. Però, quando lui sentiva che era il momento di uscire, da quel momentc poi non c'è n'era più per nessuno. Poteva esserci chiunque, ma comandava lui, tutta l'attenzione andava su di lui.

A.M.: Sappiamo che il rapporto con il pubblico è difficile, conosciamo artisti geniali come Glenn Gould, Arturo Benedetti Michelangeli e a che soffrivano il rapporto con il pubblico. Ti ha mai parlato di questa difficoltà? Hai mai percepito l'aumentare di una fragilità in questo?

G.R.: Luigi essendo un ragazzo molto intelligente faceva in modo di trovare sempre il momento giusto per intervenire. Quando accadeva lui vinceva sempre, non è mai successo che abbia fatto qualcosa e qualcuno si sia girato dall'altra parte. Però non era in grado, non era capace o perlomeno aveva paura dell'inizio, di riscaldare il pubblico. Tanto è vero che quando aveva il trio, Giorgino Gaber con il suo nasone cantava L'omino dei palloncini, tutti passavano e lo vedevano con quella faccia e sorridevano, ridevano, poi cantavo qualche cosa io. Quando il pubblico era caldo, allora lui veniva avanti col suo sax ed era fatta, se c'era una donna in sala era sua, porca miseria!

A.M.: Ma voi per questa cosa qui, avete mai avuto problemi con lui i che vi sentivate sfruttati? Neanche Gaber?

G.R.: No, per carità! Mai successa questa cosa! Gaber poi però ci ha tradito e ci ha abbandonato ed è andato a Milano, al Santa Tecla. Ci siamo rincontrati dopo, quando siamo andati a Milano anche noi.

A.M.: Tu c'eri quando lui ha composto il primo brano che lo fece cono­scere al pubblico, Quando?

G.R.: Tu non ci crederai, ma io te lo dico lo stesso. Tutti hanno cominciato a cantare Lauzi, Paoli, anche io cantavo quando eravamo nel gruppo. Io can­tavo i miei pezzi però non mi sono mai preoccupato di farlo seriamente, per­ché a me interessava fare il compositore, e quindi comporre per più cantanti, non per un cantante solo, e soprattutto di genere diverso. Non posso, come sai, rinunciare ad un certo tipo di musica. Esiste? E quindi devo farla! E allo­ra quando tutti cantavano, lui mi ha detto: "Un disco lo devi fare anche tu." ed io ho detto di no, lui ha insistito: "Ti ho già fatto anche il pezzo". Lui ave­va pensato che Quando era il pezzo per me e lo aveva scritto per me. Ovvia­mente non è successo, quindi l'ha cantato lui, poi Peppino Di Capri ne ha fat­to un successo, poi c'è stato l'episodio molto divertente di Fabrizio De Andre. Tu sai che De Andre aveva detto una volta che l'aveva scritta lui Quando. A Luigi era arrivata all'orecchio questa cosa. È andato da Fabrizio e gli ha chiesto se era vero, lui ha risposto di sì, spiegandogli il fatto. C'era una ragazza che piaceva molto a Fabrizio e lei gli aveva detto che il pezzo più bello che aveva sentito era Quando e lui allora le aveva risposto che l'aveva scritto lui. De Andre dice a Tenco "Ho fatto male?" e lui ri­sponde "Hai fatto benissimo!".

A.M.: Dalla scrittura di Quando possiamo dire che nasce il Tenco can­tautore? G.R.: E stato il primo pezzo che ha avuto successo e ha fatto parlare di lui, ma Luigi non ha mai avuto il successo enorme, eclatante, di quelli da un mi­lione di copie. Ma era un autore tra i più eseguiti, per esempio anche voi che siete jazzisti a distanza di quarant'anni, riscoprite queste cose perché sono di­ventati dei classici, non è la canzoncina. Le canzoni che hanno venduto tan­tissimo, in realtà sono state perlopiù dimenticate, mentre come esecuzione tutti i pezzi di Luigi e anche altri di quel periodo, sono rimasti nella storia. A.M.: Aveva facilità nella composizione? Arrivava spesso con brani nuovi? G.R.: Diciamo che i cantautori - non so perché si chiamano così ma ricor­do che il termine l'ha inventato Maria Monti - normalmente arrivavano con due accordi o con dei giri armonici banali, anche se poi da quelli riuscivano a creare delle melodie spesso molto interessanti. Luigi invece era più musicista, andava a cercarsi le armonie, gli dovevano suonare in testa armonie giuste, non si accontentava mai. Forse anche per questo, in quel periodo non ha avuto grande successo. Pensandoci bene, però, proprio Quando ha il giro classico usato da tutti, tipo Blue Moon.

A.M.: Su cosa si differenziava secondo te dagli altri cantautori?

G.R.: Sul piano musicale! Lui era il più musicale di tutti, era un musicista anche se non aveva studiato.

A.M.: Quindi lui aveva una ricerca musicale più sofisticata?

G.R.: Sì, infatti la prima frase melodica di Ti ricorderai, non l'avrebbe scritta né Paoli, né altri.

A.M.: Come vedi in Tenco il rapporto tra testo e musica?

G.R.: Per lui il testo era molto importante, era importante quello che diceva e come lo diceva, però sul rapporto tra testo e musica, lui partiva sempre da una idea di testo. Per esempio, la prima frase è.... "Mi sono innamorato di te/ Perché non avevo niente da fare..." e a questo punto prendeva sax in mano e cominciava a suonare la frase musicale pensando al testo.

A.M.: Una volta mi hai detto una cosa bellissima: le melodie delle canzoni gli venivano dalle improvvisazioni che faceva al sax...

G.R.: Sì, lui faceva delle melodie sassofonistiche, se tu ci pensi. Sono proprio frasi che in quel periodo i sassofonisti suonavano e quindi uscivano da un fraseggio fatto con il sax. Poi ci metteva le parole o viceversa, ma la matrice era la stessa.

A.M.: Si potrebbe dire allora che le sue melodie erano più strumenti che vocali?

G.R.: È per questo che ti ho detto, che Luigi nel rapporto musicista - cantante rispetto agli altri cantautori, era il più musicista di tutti e quindi per questo io darei più risalto alla sua parte musicale.

A.M.: A fine dicembre 1965, tu sei andato con lui in Argentina, dove era un idolo, non pensi che poi tornare in Italia, dove invece non era co­sì, sia stato per lui un trauma?

G.R.: No, perché quando hai sentito l'odore di un successo, di un successo vero non importa dove l'hai sentito. A questo punto, quando torni a casa anche se lì non hai il successo vai avanti, perché la nostra vita, il nostro modo di essere, è anche quello di sognare, di immaginare. Se l'ho avuto là, prima o poi l'avrò anche qua. Non ti preoccupi del fatto che adesso non ce l'hai, prima o poi lo avrai, non diventa un trauma. Se hai vent'anni è di­verso... ma non vorrei però che questo avesse influenzato sulla decisione di andare a Sanremo...

A.M.: Tante volte uno va in euforia perché non regge una realizzazio­ne... ma non se ne accorge e comincia a fare cose strane...

G.R.: Tornando a casa forse c'era la voglia di dimostrare anche qui la pos­sibilità di un successo, ma da questo a diventare euforici ce ne passa. Sicu­ramente era fuori di testa in Argentina. Faceva cose assurde, scendeva dal palco, prendeva il microfono, arrivava e si sedeva sul bordo del palcosceni­co, poi si accendeva una sigaretta, poi andava in mezzo al pubblico... cose che mai avresti detto potesse fare! Però, pensa: siamo partiti che non aveva neanche il visto, perché stava facendo il militare. Abbiamo telefonato per dire che non potevamo par­tire e ci hanno risposto che dovevamo andare comunque, a tutti i costi, solo anche per far vedere la discesa dall'aereo, altrimenti avrebbero lin­ciato l'impresario e l'organizzatore. Allora siamo partiti e quando siamo arrivati, appena lui si è affacciato dall'aereo sulla scaletta, hanno butta­to giù tutte le transenne, sono arrivati tutti e l'hanno portato in trionfo, senza dogane, senza visto. C'erano quattordici stazioni radio, radio im­portanti, e dall'aeroporto allo studio c'erano trenta chilometri circa. Tutte le emittenti trasmettevano la radiocronaca del tragitto in macchi­na verso lo studio, e in sottofondo c'era Ho capito che ti amo, la canzone hit di Luigi in Argentina. Tutti erano con i televisori accesi per vedere questa scena. Appena siamo arrivati allo studio, anche lì hanno buttato giù le transenne e non siamo riusciti ad aprire le portiere per uscire. Tutto era in diretta, ab­biamo dovuto aspettare e poi siamo scesi dalla macchina e siamo entrati nello studio. Eravamo in quel momento i protagonisti della telenovela. Nell'intreccio infatti, il ragazzo protagonista giunto al giorno delle nozze aveva invitato come regalo per la sua sposa il cantante, autore della canzone che aveva accompagnato tutta la loro storia d'amore. Poi hanno chiesto di fare un pezzo e Luigi si è messo al piano e io all'organo per fare delle linee di controcanto. Io ho suonato delle note che non so come venivano fuori, avrei voluto registrarlo, perché ci avrei fatto una canzone con quelle note di controcanto. Era tutto talmente bello, una di quelle cose che non ti capitano spesso. Evidentemente eravamo tutti presi da un'atmosfera particolare. Luigi ha cantato benissimo, in un modo che ti prende al cuore... Io gli sono andato dietro, quando abbiamo finito, c'era un silenzio totale, senza nessun applauso, nessuno faceva niente: né gli attori né i cameramen. Si era creata un'atmosfera magica. Dopo un bel po' di tempo è partito un grande applauso e lo studio ha ricominciato a prendere vita, per me è passata un'eternità, siamo rimasti lì che ci guardavamo, in mezzo a questo silenzio incredibile...

A.M.: Non ho voluto soffermarmi né scavare sulla storia del suicidio però non possiamo fare finta che non sia successo. Certe cose non accadano per caso e neanche da un momento all'altro. Ho ipotizzato un corso interiore che forse lo ha portato a questa fine. Forse prima si era incrinato qualcosa, qualcosa cominciava a non funzionare più...

G.R.: No, niente di tutto questo, è stato un incidente. A parte che lui faceva tutto molto sul serio, magari per una settimana, ma per quella settimana faceva come nessun altro avrebbe mai fatto. Per esempio, lui parlava di politica - tra l'altro non parlavamo quasi mai di politica, perché pensavamo a tutt'altre cose - e faceva il comunista quando era controproducente. Aveva tutto da perdere, ma lui era convinto, e restava della sua idea. C'era Lauzi che controbatteva dall'altra parte perché faceva il liberale, quindi la lotta non finiva mai, però erano lotte così, con noi che stavamo lì ad ascoltare e ridevamo, perché poi discutevano in modo anche molto spiritoso, non è che facessero comizi. Qualche volta abbiamo pensato che lui avrebbe potuto andare in Piazza Duomo e darsi fuoco, non so, per motivi politici, perché lui era così. Quando credeva in qualche cosa, ci credeva fino in fondo, come nell'amicizia. Un gesto così, forse uno se lo poteva aspettare, però penso sia stata solo una serie di coincidenze sbagliate, che non c'entravano niente con niente. Si è trovato con quello che gli porta la macchina e nella macchina c'era la pi­stola, poi la delusione, non tanto per lui ma per il fatto che se avessero vin­to, lui probabilmente avrebbe detto che Dalida aveva vinto perché aveva cantato la sua canzone. D'altra parte, avendo perso, non pensò che avesse perso Dalida, ma forse si è sentito responsabile del danno che le aveva ar­recato. Perché come dicevo quando era cavaliere, lo era fino in fondo, era uno vero. Quindi tutte queste cose messe insieme, hanno portato ad un at­timo di sbandamento, un attimo che lui tra l'altro ha provato ad evitare, da quello che si diceva allora. Aveva fatto una telefonata e non aveva ricevuto risposta, ha sparato un colpo a vuoto, ma nessuno l'ha sentito, perché se qualcuno l'avesse sentito, sarebbe andato lì e l'avrebbe fermato, trovandolo con la pistola in mano. E invece no, nessuno si è presentato ed è andato fino in fondo. Ma è accadu­to in un momento che una volta passato, sarebbe passato.

A.M.: Ripenso a quello che mi hai detto prima, alla tua casa trasforma­ta in un laboratorio musicale, un luogo d'incontro tra amici che giocava­no a fare la musica, ma la musica la facevano sul serio. Non c'era solitu­dine, si vivevano insieme momenti importanti, nel rapporto con gli altri e penso a qualche anno dopo a Sanremo. Era cambiato il modo di vivere la musica? Penso che sicuramente Tenco era ben cosciente del fatto che la sua musica non c'entrava niente con quel baraccone discografico. Ma perché è andato a Sanremo?

G.R.: Lui non è che ne fosse tanto convinto, in alcuni momenti lo era, in altri non ci voleva andare. Alla fine forse avrà pensato che, essendo Dali­da in quel momento al primo posto in classifica e quindi sicuramente se­guita e ascoltata, lui avrebbe potuto avere una vetrina. Ma non era il tipo da andare a Sanremo, non lo era come persona e neanche come musicista, perché lì dovevi pensare i brani in funzione di quel tipo di spettacolo. A Sanremo c'era della gente specializzata che costruiva i brani in funzione della gara ed era quasi certo che le canzoni così costruite vincevano, non c'era niente di spontaneo e di vero.

A.M.: Qual è la canzone di Luigi Tenco che ti piace di più? G.R.: Ce ne sono diverse... Ragazzo mio e poi Angela. Angela mi piace più per il testo, per tutta la situazione. Ma anche Lontano lontano, Vedrai vedrai, Ho capito che ti amo, Mi sono innamorato di te, sono tutti brani che ho nel cuore. Mi piacciono poi perché hanno delle cose a livello musicale, posso suonarli una giornata e non mi stanco. È chiaro che se ti metti a suona Marina, arrivi prima dell'inciso e lasci perdere.

A.M.: Che cosa è accaduto dopo questo fatto tragico, cosa è cambiato tra voi musicisti?

G.R.: Parlo per me... io abitavo a Roma, a Monte Mario, in una zona isolata, ma ti faccio una premessa. Sono nato nel Museo Civico di Storia naturale di Genova, perché mio nonno lavorava lì, e all'età di 5 anni io giravo buio, tra animali feroci imbalsamati, scheletri e quant'altro, ma non ho mai avuto paura di niente. Dopo il fatto tragico, tutte le sere giravo varie volte per casa per vedere se porte e finestre fossero chiuse. Stavo seduto negli angoli per ore, ero terrorizzato da tutto. Ad un certo punto ho preso il toro per le corna e ho traslocato e sono venuto ad abitare qui nel traffico, nel rumore. Mi sono tolto dal posto isolato, altrimenti sarei impazzito. Un mio amico Genova, un amico vero, Saro Leva, che tra l'altro ha scritto il testo di Se mi vuoi lasciare, ha preso l'aspettativa dal posto dove lavorava per venire da me per sei mesi, perché aveva capito che non stavo bene. Dopo il trasloco ho ricominciato a vivere, ma in quei sei mesi non mi riconoscevo più. A.M.: Cosa senti che ti ha lasciato Tenco, anche dal punto di vista artistico?

G.R.: Per me, per quello che mi ha lasciato, non parlerei di arte. M'ha lasciato un grande vuoto, ma soprattutto una grande amicizia, un ricordo bellissimo

A.M.: Non pensi che è straordinario il fatto che un cantautore a ventiquattro anni abbia potuto scrivere brani come Mi sono innamorato di te. Quelli di oggi non hanno lo stesso spessore...

G.R.: Ma sai, noi vivevamo in altro modo... Noi ci trovavamo sempre in quella piazzetta. Nel portone di fronte al cinema Aurora ci abitava uno che è stato riconosciuto come un grande poeta, anche se era solo un marinaio. Si chiamava Mannarini e purtroppo si impiccò. Era simpaticissimo, e noi stavamo delle ore seduti a parlare su queste panchine. Non andavamo in discoteca perché non ce ne erano. C'erano i night club con le entreneuses, ma non ci andavamo. La televisione non l'avevamo. Quindi stavamo lì a parlare, si comunicava molto di più, ci si scambiavano le idee, e non a caso in un testo di Gino c'era un'idea di Luigi e viceversa. Questi marinai ti raccontavano tante cose e Mannarini era uno di quelli che raccontava bene, perché a modo suo era un poeta e ti raccontava tut­to quello che aveva visto, quello che aveva vissuto, tutto quello che succe­deva fuori. A sentire lui e anche gli altri marinai, ti facevi una grande cul­tura che non è quella che ti fai adesso con la televisione, perché ascoltando questi racconti straordinari, ti veniva voglia di fare tante cose, di andare a sentire un certo tipo di musica. Quando andavi nei negozi di dischi, ti davano le cuffie e un giradischi, ti met­tevi lì e sentivi. Noi ci divertivamo a cercare di essere i primi ad intuire e sco­prire quello che sarebbe stato poi un successo, passavamo le ore. Adesso non è così, forse per pigrizia, forse perché ci sono tanti altri interessi. A noi invece importava soltanto di sentire tanta musica. Ascoltavamo gli autori francesi, che facevano dei testi notevoli, erano dei veri poeti. Fabrizio De Andre aveva una conoscenza spaventosa dei poeti, e si sentiva che il suo modo di scrivere era poetico. Aveva orecchiato talmente tanto di queste poesie che anche scri­vendo delle cose banali, non era mai banale. Sentivamo anche gli autori ame­ricani, Giorgio Calabrese che aveva anche più anni di noi era documentatissimo sul modo di scrivere e sulle traduzioni delle canzoni, e ci raccontava che cosa era il contenuto dei testi, perché era stato scritto in quel modo. In questa situazione di fermento e di curiosità, se ti mettevi a scrivere, non scrivevi mai una stupidaggine, ma cercavi di avvicinarti a quel tipo di livello. Perché prima c'era più conoscenza, ma era una conoscenza costruita parlando con gli altri.

A.M.: Una conoscenza che derivava dai rapporti interumani...

G.R.: Esatto, quella che adesso un po' manca. Quelli sono stati dieci anni di vita vissuta, in cui sono successe tantissime cose, perché sono i dieci anni in cui si è partiti dalla costruzione della mu­sica fino ad arrivare a decidere di vivere con questo lavoro. Perché vivere di musica è un trionfo, ma anche solo sopravvivere! ! !

 

                                                                                              ilmioregno.it (febbraio 2006)

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