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CIAO, TENCO

(tratto da   CRONACA  del 4/2/1967)

Luigi Tenco non ha saputo sopravvivere ai suoi ideali derisi. S’è ucciso onesto e incompreso, schiacciato dai « tromboni » e dai falsi-ribelli che, mentre lui veniva frettolosamente bocciato, trionfavano sulla ribalta di Sanremo. Non ha capito che nemmeno il suo tragico gesto « chiarirà le idee » di quel mostro dell’industrializzazione musicale che egli sfidava con la sua intelligenza. Ha commesso il grosso errore d’aver ceduto a chi insisteva perché andasse a un Festival. Ed è morto da disperato, sconvolto dal fatto che dire delle cose serie non basta a mettere fuori gioco i « biribo-yè-yè » e le « rose blu ».

Sconfitto dallo schieramento inesorabile d'ignote giurie, calcolato fra i mediocri di un Festival in cui la canzone era solo pretesto, certo fra i grandi traditi d'un ingranaggio che stritola i meno conformisti. Luigi Tenco s'è sparato una revolverata alla testa. E' diventato così, d'un colpo, l'agghiacciante primattore d'un Festival - e d'un mondo - che non poteva capirlo. Di quel Festival e di quel mondo è diventato lo "scandalo disperato" perchè non gli permettevano d'esserne il mattatore. 

                                                                                                              
          Aveva 28 anni. E' morto credendosi il più attuale dei ribelli; ed era, invece — come troppi cantori né bene né male di quest’epoca epidermica. superficiale. velleitaria, esclusivamente colore e disamore — un personaggio onesto pari ai più romantici eroi tristi dell’Ottocento. Scusate se lo paragono al doloroso giovane Weither, al nichilista Oblornov, allo Jacopo Ortis, ad Uno dei cento tragici e paradossali suicidi che, col colpo grosso • d’una revolverata risolvevano un secolo e mezzo fa la loro guerra privata. perduta in partenza perchè dichiarata con le armi della poesia e dell’anticonformismo a istituzioni e costumi che invece avevano, dalla loro, la strapotenza delle realtà consolidate e inarrestabili.

 

 

  Esempi da studiare ma non da imitare

Sono esempi difficili, lo so,  ma non me ne vengono in mente altri, perché tutta la retorica, tutto il gonfiore pessimista di quell’Ottocento che mieteva eroi nella « boheme» dei ragazzi i quali credevano d’aver capito già tutto, dette « gloria », una gloria sinistra e tentatrice, proprio a codeste creature amanti del gran gesto più che del vero combattimento. Esempi da studiare e non imitare, perchè un conto è sentirsi ribelli e un conto è rimboccarsi le maniche e, laddove la poesia e la canzonetta protestataria non possono nulla, sfondare la linea nemica con la picozza del demolitore, la lanterna del minatore, la penna dello scrittore civile, il piccolo sovrumano coraggio del "travet" e del contadino che puntano all'avanzo di bilancio ed al raccolto migliore. Werther, Oblomov, Tenco. Una lunga linea sanguigna del gioco d'azzardo e persino scorretto contro leleggi logiche della vita. Dostojewski ce ne ha reso celebre il tipico esemplare ne "Il giocatore". L'uomo che punta tutto se stesso sulla "roulette" o sul "baccarat" perchè disprezza in buonafede altra arte o mestiere, altro cespite per sopravvivere, altro gettone da puntare che non la sua carica d'ambizione umana. Chi perde, se la pallina si ferma sul numero imprevisto, si fa saltare le cervella. E ciò malgrado abbia spirito, educazione, cultura, possibilità enormi in altri campi che non siano l'azzardo o, se vogliamo, la poesia e la canzonetta. E ciò malgrado abbia in tasca tutte le carte in regola per essere un cittadino qualsiasi - responsabile, disincantato, laborioso e partecipe d'ogni gioia e d'ogni dolore - che ha saputo rinunciare alla retorica per dedicarsi all'opera costruttiva, al lavoro anonimo e coraggioso che solo può dare peso e certezza umana al fatto di nascere. La celebrità, la gloria, la rivoluzione morale sono conquiste casuali, sono passi pazzeschi verso un "assoluto" che è patria dell'ambizione e mai dell'umiltà, mai della più schietta dimensione in cui l'uomo deve sapersi inserire, adattarsi, partecipare, lottare e vincere. Sono parole "conformiste", lo so: ma non sono affatto la negazione del coraggio, come qualcuno potrebbe interpretarle.

I "tristi eroi" di ieri, i Luigi Tenco del 1967 non hanno potuto intendere la lezione di coraggio che veniva loro dalla vita degli altri. Nell'intimo della nostra coscienza, siamo tutti vigliacchi, abbiamo tutti un sacro terrore delle dure esigenze che la vita collettiva ci impone. Talmente vigliacchi da voler rinunciare quasi tutti, a vent'anni, alla vita almeno cento volte col pensiero per una minima cosa storta negli studi, nei contatti sociali, in famiglia, in amore. Specie in amore, persino quando ci va a gonfie vele, persino quando sappiamo che quell'amore terribile non ci darà niente più d'un po' d'amplessi e di suggestioni create, peraltro, dalla nostra fantasia e smentite ogni volta che sono analizzate dalla ragione.

Ritornelli antiatomici e piatti di fagioli

 

Luigi Tenco non ha saputo sopravvivere ai suoi ideali derisi: ha ucciso se stesso per non voler ragionare. Si sentiva, si credeva ingiustamente incompreso. Si sentiva grande e gli altri lo ridimensionavano frettolosamente. Era stato tra i primi a lanciare in Italia le "canzoni di protesta", era l'antesignano di quell' "onda verde" che, per lui avara di successi e di quattrini discografici, sta facendo l'immeritata fortuna di cantautori e complessi con molti capelli e pochissime virtù personali. Era talmente disgustato che altri trionfassero sul "tabbogan" del gusto corrente, mentre a lui toccavano a malapena le briciole, da considerarsi da tempo anti-antitutto. In segreto, si sfaldava la sua superba concezione d'individuo innovatore, di menestrello nuovo, di capofila originale. Gli altri mietevano sguaiatamente, ancheggiando e strimpellando chitarre mai imparate a suonare, milioni a palate; venivano gettonati ai "juke-box" come strepitose meteore del ritmo yè-yè, mentre sono soltanto vuoti bluffisti. 

Per lui, Tenco, dalla voce composta, dagli occhi intelligenti che esprimevano idee veramente pulite e nuove, niente milioni e niente profitti clamorosi dalla strutturata, falsa, pachidermica e insulsa piovra discografica che munge cifre pazzesche dalle poppe della "protesta" fasulla.

Ecco: essere padre, a vent'anni, d'un autentico Progresso, e vedersi schiacciato dagli aborti. Essere Luigi Tenco, scivere e cantare "ballate" che dovrebbero far tremare e piangere tutti - vittime e colpevoli d'un mondo storto - e vedersi fino a ventott'anni respinto nei piccoli e angusti "bagaglini" dove la gente bene, la sera si nutre di ritornelli antiatomici fra un piatto di fagioli con le cotiche - quale "rottura" contro la noia! - e una Coca Cola intrugliata con lo schizzo di gin. Essere Luigi Tenco ed apparire, quasi penetrandovi dalla finestra di cartone, fra le scenografie geometriche - tavolacce, reti da pesca e inferriata di plastica tinta - negli spettacolini minori della TV, nelle ore in cui la gente va a dormire perchè tanto c'è rimasto solo "nonsochecosa" e il telegiornale della notte.

Essere tra i primissimi degli "arrabbiati" italiani, portabandiera di una canzone che è un inno alla fratellanza; essere l'antitesi del "divo" che urlacchia motivetti da rigurgito sociale e poi evade il fisco per centinaia di milioni; essere un piccolo Messia del mondo nuovo e poi affidare il proprio messaggio ai microfoni idioti di Sanremo! Lui che a Sanremo è il più intelligente di tutti, il solo a credere sinceramente alla sua "protesta" ideale. Ecco lo sbaglio che non doveva commettere Luigi Tenco: un festival non ammette la vera politica, la vera poesia civile.

"Ciao, amore ciao". Sarà l'ultima canzone in gara della prima serata. Lui è torvo nel comparire sul palcoscenico, pallido, freddo, compresso come una bombola d'orgasmo a mille atmosfere. Deve sciorinare ad un elegante pubblico, di cui istintivamente diffida, che forse odia, un discorso fatto più di problemi che di musica: altro che Gene Pitney, altro che "Io, tu e le rose"!...

"La solita strada bianca come il sale; il grano che cresce, i campi da arare; guardare ogni giorno se piove o c'è il sole per saper se domani si vive o si muore e un bel giorno dire basta e andar via....Ciao, amore, ciao".

Saltare cent'anni in un solo giorno

Come dire che, per dare un senso alla vita, si lascia la campagna per andarsene lontani, in città soffocate da case e ciminiere. E lì il mondo avido e insicuro ti costringe ad andare sempre più lontano, cosicché la vita diventa come una prigione di vetro e si resta lì, senza tornare.

"Lontano, lontano, lontano", anni fa era stata la unica canzone che a Tenco aveva dato un pò di respiro, di compenso distratto, di riconoscimenti complicatissimi da certa complicatissima critica musicale che non raggiungerà mai il grande pubblico. Lontano. Cioè oltre la vita che, per Luigi Tenco, malgrado conosca negli anni abbastanza da contentarsi e sublimarsi nel settore della musica leggera impegnata che in quello delle scienze pratiche (non per nulla studia ingegneria), è solo una prigione di vetro. Direi di specchio, dove un ribelle nato, specchiandosi dall'alba al tramonto ed oltre non si contenterà mai del proprio maglione a girocollo, non s'appagherà mai del nodo d'una cravatta che lo rende "borghese", uguale agli altri.

Il suo è l'oscuro dramma esasperato di tanti giovani. Un dramma antico e sempre attuale, che ci teniamo in casa disinvoltamente celato sotto la frangetta "beat" di nostro figlio chitarrista e svogliato studente. Un Dramma con la maiuscola, che fa scivolare nel suicidio l'artista incompreso come la graziosa liceale che ha preso quattro in filosofia, che fa aprire il gas al sedicenne palermitano respinto dalla cassiera del bar che gli ha risposto semplicemente: "ma lo sai che ho dieci anni più di te, che sei ancora un ragazzino!". Il Dramma di chi si congestiona, appunto, davanti agli ostacoli più elementari dell'esistenza, alle prove più scontate che cimentino il carattere.

A Cassine, in quel d'Alessandria, dove Luigi era nato nel marzo '38; a Recco dove ogni tanto riappariva per confermare che s'era trasferito lì e vi teneva casa nel suo peregrinare tra le "prigioni di vetro"; a Sanremo, nella cameretta 219 dell'Hotel Savoia - una stanzetta da sottoscala per gli ultimi arrivati - dove s'è sparato allorché ha saputo che la sua canzone era stata eliminata. Tappe dei 28 anni intensi d'un Dramma che coinvolge i più indifesi, inevitabile morbo epidemico che lancia loro sottili insidie. E lui, proprio a Sanremo, per farsi giustizia del nichilismo critico altrui di fronte al suo programma ideale ha gridato "basta".

"Andare via lontano, cercare un altro mondo, dire addio al cortile, andarsene sognando... E poi mille strade grige come il fumo, in un mondo di luci, sentirsi nessuno. Saltare cent'anni in un giorno solo: dai carri nei campi agli aerei nel cielo e non capirci niente e aver voglia di tornare da te. Ciao, amore, ciao".

Dalida che ha riproposto a fine serata la canzone di Tenco, aveva una faccia stravolta. "Sentirsi nessuno. Saltare cent'anni in un giorno solo....". La bravissima cantante francese sembrava voler scongiurare il Dramma che già s'era delineato, dietro le quinte, ai tiepidi applausi di quei signori in smoking, di quelle signore in lamé-argento, quasi al completo stipendiati per l'occasione dai nostri discografici. Tiepidi applausi che anticipavano l'anonima condanna delle giurie esterne. Non capivano, lorsignori, che il ragazzo Tenco, dietro le quinte, era legato ad un filo? Che il loro "no" significava per lui la goccia che fa traboccare il vaso? Non sapevano, non capivano. Anche dopo la struggente, allucinata interpretazione di Dalida abbiamo visto gente sbadigliare senza mettersi neanche la mano davanti alla bocca.

"Non saper fare niente, in un mondo che sa tutto; e non avere un soldo nemmeno per tornare; Ciao, amore, ciao..".

Voti, complimenti, rabbia, ubriacatura anonimamente ripartiti fra vinti e vincitori, esclusi e rimandati alla finale. Martellata sul fragile sistema nervoso dell'escluso Luigi Tenco. Figlio d'un contadino piemontese che non aveva più creduto nella terra, emigrato per stanchezza "lontano, lontano, lontano", anche Luigi è stanco di non avere più terra sotto i piedi e di essere condannato all'eterna emigrazione senza gloria. Non hanno capito quel che aveva messo, lui, in quella canzone che comprendeva, riassumeva, sottintendeva tutto ciò che gli altri avevano cantato prima di lui, ma ad un livello più alto, cioè più lontano. Una canzone di pace e di amore come tutte quelle musicate o urlate o sussurrate da millenni a questa parte, ma sua.

Sarebbe stato vivo per sé e per gli altri

Lo so, questo non è un discorso amabile. Non è il solito necrologio d'obbligo davanti all'infelice morte di un giovane. E' un processo. Ma non solo un processo alla società che crea e tollera baracconi come Sanremo e "fenomeni" ottusi come la melomania straripante. E' un processo all'uomo. Un amaro processo all'uomo, non più ragazzo, al ventottenne Luigi Tenco che, a fargli i conti addosso, non aveva "sfondato", è vero, però le sue carte intatte per prendersi una rivincita le aveva, e come. E' un processo all'emigrante Tenco, al ribelle Tenco che non ha saputo sottrarsi, lui cantore della gente umile e coraggiosa, al fascino del proprio pessimismo romantico, alla propria negazione d'una vita possibile anche ai margini dei miliardi e della costellazione di pietre false. Essere l'incompreso, il diamante in una graduatoria di "culi di bicchiere" è amaro da mandar giù, ma sapere in anticipo, che "o la va o la spacca" è manifesta premeditazione all'azzardo.

E, purtroppo, è un esempio triste, un pessimo testamento per chi, con meno meriti e più presunzione e arrivismo di Tenco, potrebbe dire: se l'ha fatto lui, se il "juke-box" non suonerà per lui, figuriamoci per me! 

Luigi Tenco non era un divo, era anzi l'antidivo per eccellenza e, poi, i tipi come lui non ce li fanno diventare. Ma aveva amici, gente che capiva le sue idee, era persino fortunato in amore com'è per tutti gli eroi pallidi della febbre ideale. Ultimamente, ricordate, gli avevano preso alla TV la "sigla" della serie del commissario Maigret: quella canzone francese triste, piena di umori parigini fumosi e un po' canaille.  Le ragazze intellettualoidi cantano la sua "Angela", si ricorderanno quel bel giovane torvo, schietto, timido, a suo modo affascinante. Aveva dunque un piccolo mondo dove starsene tranquillo a lavorare per le sue idee, tra i suoi personali compromessi della "città di vetro", senza emigrarne "lontano, lontano, lontano", con quell'isterica rivolta ferocemente romantica, così poco comprensibile per non far traballare persino le fondamenta poetiche di un "messaggio", tanto da far sospettare che, per realizzarlo, Luigi puntasse, in fondo su una vittoria da Festival.

Forse è stato il suo amore per l'umanità a tradire Luigi Tenco, nel senso che egli, nel suo entusiasmo riformista, s'era illuso che la gente avrebbe potuto capirlo e seguirlo. Per lui la canzone era la vita, un modo di realizzare ideali che il pubblico inesorabile gli aveva soffocato sulle labbra. Prima di premere il grilletto ha scritto poche righe su un foglio: "Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt'altro!) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda "Io, tu e le rose" in finale e una Commissione che seleziona "La rivoluzione". Spero serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao, Luigi".

Non ne valeva la pena, quel gesto non chiarirà le idee a nessuno. Purtroppo. Non è che la gente non lo avesse capito, è che lui non aveva capito la gente. E' lui che non aveva capito come in un Festival di canzonette, già irreggimentato dai mostri dell'industrializzazione musicale, può anche semplicemente succedere che vinca un motivetto che fa biribo-yè-yè.

Mi assolverà, Luigi Tenco, se ho scritto queste cose, se sarò forse l'unico ad aver soffocato la pietà per non perdere di vista la sostanza del suo gesto. Sono suo fratello, suo padre, suo amico tradito da quel gesto. Mi aspettavo che lui, così intelligente e introverso, capisse che la sua fetta di celebrità l'avrebbe potuta sempre trovare, domani, ovunque si sarebbe cimentato. Persino su quelle "strade bianche di sale" che gli piangevano sulle labbra mentr cantava l'ultima sua canzone funesta. Quelle "strade bianche di sale" che tutti percorriamo a testa alta, padroni di quel che abbiamo davanti e lasciandoci dietro, da forti, il sale che ci si attacca sotto le scarpe. Quelle strade umili e faticose che l'uomo, emigrante per natura e per vocazione, non disdegna mai quando sa che all'orizzonte c'è un migliore se stesso che aspetta, e non certo una "Walter PPK" calibro 7,65 - unica soluzione - quando il caso ci fa inciampare in un pezzo di sale più grosso del solito!

Invece, Luigi Tenco ha voluto "vincere". Uscito dalla comune d'uno stolido palcoscenico, con l'eco nelle orecchie di Dalida che urlava disperata, ben conoscendolo, quel "Ciao, amore, ciao", vi è rientrato di prepotenza, sul drago rampante del suicidio clamoroso.

Mentre la sua vera vittoria sarebbe stata quella di infischiarsene, come aveva fatto fino allora. E puntare al domani, combattente di razza d'una "protesta d'arte" che non può permettersi di schiantarsi sulla saponetta viscida d'un fiasco professionale. Domani avrebbe avuto ragione sicuramente lui. E sarebbe stato vivo, per sé e per gli altri. No, non riesco a perdonargliela.

                                                                                                                            Elio Polese

 

 

 

 

 

 

 

 

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